
Hof(fe) nasce da un gioco linguistico tra due parole tedesche: Hof (“cortile”) e Hoffe (“speranza”).
Due significati che convivono nello stesso suono, come due spazi che si sovrappongono: uno reale, domestico, quotidiano; l’altro intimo, proiettato verso il desiderio e la possibilità.

L’opera indaga la memoria come materia instabile e frammentata, un processo di costruzione e perdita, di presenza e assenza.
L’ambiente in cui lo spettatore entra è stretto, quasi compresso, rivestito da una trama reticolare che ricorda una mappa mentale o una rete neurale: un archivio disordinato di immagini, frasi e suoni.


Ogni elemento sembra affiorare come un ricordo parziale, ricomposto e deformato, dove la coerenza lascia spazio all’intuizione.

Alla fine del percorso, una feritoia consente di osservare — o meglio, sbirciare — una proiezione video.
Il gesto del guardare attraverso un’apertura rievoca l’esperienza del Hof, il cortile berlinese: un luogo intimo ma condiviso, che si osserva a distanza, dove la vita si mostra solo in frammenti.
In questo spazio, la memoria assume la forma di uno sguardo indiretto, di qualcosa che si può solo intravedere.



L’esperienza sonora dei rumori della metropolitana attraversa l’opera come un flusso sotterraneo, connettendo lo spazio della memoria a quello della città, e suggerendo un continuo movimento tra passato e presente.
“Le auto sfrecciano alla velocità del passato.”
Un ossimoro spazio-temporale che sovverte la percezione lineare del tempo e ci invita a considerare il passato non come qualcosa che si allontana, ma come ciò che continua a muoversi accanto a noi — rapido, sfuggente, ancora vivo.
C.so Ercole I d’Este 12/A - 44121 Ferrara

